Il limite tra possibile e impossibile è un solco
precario, dettato dalla nostra fantasia. Ripenso a quella fantasia sbrigliata della nostra
infanzia che ci rendeva tutto magicamente possibile. Il solo baluardo
insormontabile era la volontà del genitore…allora, ma oggi, non più.
Il mio ambulatorio in Piazza della Sanità, un
piano rialzato, un’unica sala con volte a botte a ridosso di una gemente parete di
tufo. Dal 1646 ha difeso, con il suo silenzio, chi vi abitava dalla storia che
trascorreva a pochi metri: sovrani e vescovi in visita alla chiesa di S.Maria
della Sanità, maestà imperiali di passaggio, per arrampicarsi su per salita
Capodimonte con fastosi carri, trainati da affaticati buoi, a raggiungere la
Reggia. Moti popolari, pestilenze, colera, carrette colme di cadaveri verso le
grotte delle Fontanelle.
Durante
i temporali fiumi di pioggia, veri torrenti sassosi, scendevano a valle, la
“lava dei vergini” che distruggeva tutto, portando via uomini e cose. Sotto il
pavimento dello studio a pochi metri, le catacombe di S.Gaudioso, misteriosi
cunicoli nel tempo. Sino a pochi anni fa un gommista cercava forature in un
loculo allagato, nel palazzo affianco. Poi distrusse tutto per un bagno
piastrellato. In questo luogo, ora ambulatorio, qualcuno è nato, vissuto nel
riverbero dei signori che abitavano ai piani nobili, ed è morto. Le parole, i
pianti, le risa, i sospiri sono come polvere impalpabile su queste mura.
Sarebbe divenuto, forse, il magazzino di un commerciante del posto se io non
gli avessi donato ancora un’occasione di vita…perché vita è quella che vi
scorre ogni giorno nelle ore di visita. Una vita vera, dura, a volte tragica,
ma pronta a scoppiare in rumorosa allegria.
A
volte sono rappresentazioni vere di una commedia popolare a cui si accompagnano
applausi . Anni fa, durante un epidemia misteriosa che mieteva vittime tra i
lattanti, mi venne ad intervistare un reporter di una rivista svizzera. Era
reduce da una sanguinosa guerra in Congo e quella pausa, mi disse, per lui
aveva i caratteri di un “bizzarro carnevale, un paradiso inatteso.” Non ho mai
ritenuto degradante appartenere a questa rappresentazione perché ben conoscevo
gli ambulatori asettici e sicuramente al confronto, molto squallidi, in zone
più nobili della città. Mi ritengo uno di loro,oramai dopo quarant’anni, e vivo
con loro per otto ore al giorno.
Torniamo
a quel limite del possibile, di cui parlavo inizialmente per raccontarvi uno
dei mille fatti che mi sono accaduti nel tempo.
Ero tornato da una vacanza oltre il Circolo Polare.
Allorché si valica questo parallelo invisibile nella immensa foresta norvegese,
il consumismo è pronto ad accoglierti con i suoi mille articoli: diploma da
esploratore, in pergamena, dove una bionda vichinga vi appone il vostro nome ed
altre carabattole. Mi aveva colpito la riproduzione di un’insegna stradale che
avevo realmente incontrato lungo la rotabile: un triangolo di pericolo con
raffigurato al centro un orso bianco. Su quelle strade, d’inverno, è un
incontro ipotizzabile. Lo acquistai e decisi, in seguito, di metterlo in studio
sulla porta che dal mio ambulatorio conduce ad un secondo stanzino con i
servizi. Ogni porta, soprattutto se non la si chiude, è uno stimolo di
curiosità per i miei piccoli pazienti. Trovai indovinata, dopo aver apposto il
cartello sulla porta, la mia frase scherzosa: “Bambini, di là non si può
andare, c’è l’orso…vedete il cartello?”
Concetta
Arrichiello era una madre giovane, una ragazzina in jeans e scarpe da
ginnastica, una della nuova generazione, per intenderci, spigliata, attenta ai
due suoi figlioli: Genni, sei anni e Damiano otto anni, frequentavano la scuola
ed erano vestiti con cura. Quel mattino li visitai entrambi. Avevano scorto il
cartello e Genni, il più discolo, si diresse verso la porta, deciso a vellicarla.
Attendevo quel gesto per sfoderare la mia arma: - “Ragazzo di là non si può
andare, c’è l’orso, non vedi il cartello?” Genni restò per un attimo
sconcertato e venne ad abbracciare la madre che stava seduta di fronte a me,
mentre scrivevo le ricette. Intuii che parlava sottovoce con lei. Concetta
doveva rispondere qualcosa che non riuscivo a decifrare. Al momento del
commiato si alzò e si diresse lentamente ed incerta verso l’uscita. I ragazzi
la seguivano sconcertati, guardandomi. Arrivata alla porta Concetta mise la
mano sulla maniglia, poi la lasciò e fece un passo indietro voltandosi verso di
me. I nostri occhi si incontrarono. Ci fu una pausa imbarazzante. Il tempo si
era fermato. I figli seri, guardavano la madre. Concetta non distolse lo
sguardo dai miei occhi e disse:-“Dottò, posso chiedervi una cosa? -“Dimmi
Concetta.”- risposi non indovinando la sua richiesta. - “Dottò, potreste far
vedere, per un attimo, l’orso ai miei figli?”