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benedetto rione sanità

Lo strabiliante successo che da diversi anni sta vivendo il rione: il quadruplicarsi del flusso turistico, le numerose associazioni che spuntano come funghi, le guide inventate, i negozi tinti e pinti (il migliore, il più buono, il più bello), pone una riflessione se non sul metodo almeno sulle cause principali del fenomeno “virtuoso”. Ideologia a parte, non è sbagliato che migliaia di turisti visitano ogni anno il cimitero delle fontanelle, le catacombe, le chiese, gli ipogei, i palazzi. Così come non è sbagliato che una attività commerciale sfondi per una invenzione o una prelibatezza. Ma le cause di un luogo storico ed artistico come il quartiere sanità non possono essere messe in relazione con il commercio, non c’è nessuna affinità tra arte ed economia, o no?

Questa una domanda cruciale quando visito luoghi turistici. Mi viene in mente il film “Mortecci” diretto da Sergio Citti, dove il povero Lucillo Cardellini (Sergio Rubini), è costretto a suicidarsi perché reduce dalla guerra. Credendolo deceduto in battaglia, nel suo paese d’origine edificano un museo in suo onore. Unica attività lucrativa, dove un po’ tutti ci campano, quando i parenti, i sindaco e il prete si accorgono che il soldato non è trapassato ma vivo lo processano e lo costringono a morire.

Ciò che mi fa sospettare è il fatto che oggi i media parlano del rione considerando in primis la camorra, poi una pizzerie ed infine una pasticceria. Non che ci sia una relazione tra queste tre entità, ma se le cause del successo, escludendo la prima, sono da attribuire al commercio, alla invenzione di un luogo storicamente di frontiera, al tarallo partenopeo, al caos dei motorini bhè allora il sospetto che l’artificio superi il buon senso non è poi così sconsiderato.

Un luogo ha le sue origini. Le pietre, le vie, i vicoli, le piazze hanno tutte una “identità” che si plasma con la gente. Il fruttivendolo sa cosa prendere al mercato, più arance e meno kiwi, anche il salumiere vende più mozzarella e meno prosciutto, e finanche il tabaccaio sceglie le sigarette secondo i gusti. Ma forse sto esagerando, solo che le differenze e le somiglianze di un territorio si imparano guardando i cittadini di quel posto, se puoi si giudica con attenzione è ancora meglio. La genesi di un rione che ha visto così tanti capò senza distinzione tra le diverse appartenenze, ha posto una diversa interazione che in un modo o nell’altro è sopravvissuta. Ma come spesso si scrive, quartiere senza una organizzazione, al contrario, questa mancanza ha creato una nuova forza comunicativa, qualcosa che nasce per identificazione, per riconoscenza, per amore.

Se un adolescente è morto per sbaglio, io non posso pensare che anche mio figlio muoia. Ho paura, sono preoccupato, cerco soluzioni, ma non posso andare via da casa, non ho né la possibilità né la voglia. Perché devo andare via io?!, andassero a fare in culo loro. Ma cosa faccio per ovviare alle mie preoccupazioni? Cerco delle strategie, le cerco per combattere e perché ho paura. Tremo perché mia figlia è andata a scuola, ma che faccio?, non la mando? Ho fiducia nelle istituzioni? Mi sento abbandonato, che per molti al massimo è solo una bella scusa, venite qui a vivere poi ne parliamo; io il coraggio di rimanere ce l’ho, voi fate solo i turisti per caso.         


Anche se sono uscito fuori tema, quello che mi va dire è che quando vediamo, camminiamo, fotografiamo questo benedetto rione Sanità, ci prendiamo l’anima del posto, la espropriamo delle sue caratteristiche, la esaltiamo come quando ci regalano un nuovo telefonino. E’ buono il fiocco di neve, è buona la pizza, la gente sembra indifferente, ma infondo sono abituati… poi finisce che il ricordo è solo un oblio, che sono stanco attraversando tutti questi i vicoli, e che il nuovo smartphone è già vecchio. [+blogger]      

appello rete rione sanità

Nell’area metropolitana di Napoli viviamo una spietata spirale di violenza: in questi ultimi mesi abbiamo un morto ogni due giorni. Il Rione Sanità è quotidianamente schiacciato da questa brutalità. Noi del Rione Sanità abbiamo sofferto troppi lunghi anni di indifferenza istituzionale, di promesse e di pressappochismo; siamo stanchi della violenza che subisce la nostra gente, della paura della camorra, del disinteresse, delle analisi generiche preconfezionate e delle alternative che sembrano non prendere mai la giusta direzione! Il problema della microcriminalità non si risolve con una sola scuola aperta, con dei bravi professori, con una manifestazione, con la militarizzazione. Il Rione Sanità non si “salva” con l’emergenza: sono più di 30 anni che chi subisce vive nella noncuranza, nell’impossibilità di risolvere le cose, nel terrore di essere stati abbandonati senza rimedio e senza via di uscita. Non è la prima volta che la rete del rione Sanità, composta da singole persone, associazioni, commercianti, scuole, preti etc., denuncia con forza il lassismo di chi deve e può fare qualcosa. In questi ultimi anni abbiamo scritto tre lettere, “LiberiAMO la Sanità”, in cui abbiamo analizzato i problemi della nostra gente. Noi dobbiamo avere il coraggio di cambiare il sistema educativo. Ecco perché chiediamo a tutte le forze attive, del territorio ed oltre, di sostenere azioni che incidano fortemente sulla struttura sociale per la costruzione di una comunità stretta e duratura, tra le scuole, le associazioni, i volontari e le forze dell’ordine per promuovere azioni educative e non repressive, con il coinvolgimento delle famiglie attraverso programmi che rappresentano maggiormente il territorio e con la coscientizzazione che passa attraverso la considerazione e la riappropriazione della propria storia e della propria dignità. Solo se la gente si sente parte attiva, solo se sente realmente che sta contribuendo a scrivere la propria storia, solo in questo modo si sente parte in causa senza l’abbandono e l’indifferenza che alimenta la paura e la sottomissione. Noi della Rete del Rione Sanità lavoriamo da anni nel quartiere, ascoltando centinaia di vite spezzate. Ribadiamo che si deve intervenire strutturalmente sulla scuola, sul lavoro, sulla sicurezza, sulla viabilità, sulla sanità pubblica, perché viviamo dentro una bomba sociale. Per la scuola chiediamo: un asilo nido comunale, un plesso onnicomprensivo elementari e medie, il potenziamento delle scuole del quartiere in particolare dell’Istituto Superiore F. Caracciolo annullando l’accorpamento con altro Istituto Superiore e inoltre chiediamo che queste scuole siano aperte fino a sera con personale qualificato e appassionato. Per la sicurezza chiediamo il potenziamento e la presenza costante dei vigili urbani e delle forze dell’ordine che devono coordinarsi meglio tra di loro. Inoltre chiediamo l’installazione della videosorveglianza nel territorio. Per il lavoro chiediamo il sostegno alle cooperative esistenti e a quelle che stanno nascendo nel quartiere, nonché ai commercianti, agli artigiani, ma soprattutto chiediamo maggiori opportunità di lavoro per i giovani. Per la sanità chiediamo la riapertura del pronto soccorso dell’ospedale San Gennaro. Facciamo nostro il grido del popolo del Rione Sanità ma anche quello di tutte le periferie di questa Napoli, intese come luogo del disagio sociale, ben coscienti che solo camminando con questo popolo emarginato potremo ottenere i nostri diritti.

carnevale 2015




i qualunque

Scrivere, o soltanto raccontare di questo quartiere, è facile e per di più poco dispendioso visto che, quasi tutto quello che viene pubblicato, è merce di un comune scambio. Una forte retorica, un modo di vedere le cose attraverso l’eroismo e lo stoicismo, lo spettro della camorra, l’abbandono e la mancanza di senso civico. C’è chi si inventa vere e proprie fiction per descrivere il rione Sanità, ma forse non ha torto per la sua fantasia. Il quartiere può essere salvato solo dai preti (già dai preti, ma a loro chi li assolve?), dai politici pubblicitari, dai ricchi signori del Vomero o del nord Italia. Gli investimenti, il turismo (il turismo, bella invenzione inquinante), la privatizzazione, la moneta. 

Ripercorrere le fasi storiche di questa vallata è praticamente impossibile se si considera che 60anni fa era un quartiere rosso (ma non del pd), operaio, artigiano, povero e virtuoso. Virtuoso perché c’erano gli artigiani più bravi del mondo come i guantai. Don Armando, abitante del rione ed ex commerciante degli anni ‘20/30 - che prima di morire, poco dopo sua moglie, aveva festeggiato 73anni di matrimonio - mi raccontava del cappellaio ambulante sotto al ponte della Sanità; lui ogni settimana andava a provarsene uno per vedere quello che più gli piaceva e piacere alle ragazze.


Ma le storie si sa sono uniche e raccontate secondo le proprie rappresentazioni. L’intervista registrata a lui e sua moglie (oggi anche digitalizzata) è un misto di contraddizioni e meraviglia, di critiche verso la “gioventù moderna” e di ricordi idilliaci. La signora Carmela mi spiegava come nel rione, negli anni del fascismo, si sentiva molto più tranquilla. “Due donne sole venivano scortate e accompagnate fino a casa per la loro incolumità”.


Non è questo però il senso dell’articolo. Se tutti noi che ci preme l’informazione dessimo un po’ meno spazio agli eroi di turno, al volto più noto, al caso più eclatante, e facessimo un po’ di più parlare la gente comune (il Marotta c’è riuscito), bhé forse avremmo la forza di risolvere le cose con maggior sicurezza e incisione. Le proteste per l’accorpamento della scuola Caracciolo e la chiusura dell’ospedale san Gennaro; l’occupazione pacifica del cimitero delle Fontanelle e del parco san Gennaro; le spazzate comune per aiutare la raccolta differenziata; il doposcuola per i ragazzi e gli stranieri; il carnevale e la ludoteca cittadina, insomma tutto questo avrebbe un altro senso se a parlare fossero gli altri, i qualunque, i comuni mortali consapevoli che nella loro borsetta blu c’è quasi sempre un thermos rosso con il coperchio bianco, le posate, uno straccio, il pane e il vino. [+blogger].

i miracoli esistono











campi estivi

Recentemente nella sala conferenze dei Missionari Vincenziani di via Vergini, si è svolta una bellissima iniziativa delle associazioni e delle scuole del quartiere. L'iniziativa riguardava una mostra delle foto del campo estivo "Guardiamo il quartiere con altri occhi", con testimonianze dei bambini e dei ragazzi preadolescenti che hanno partecipato. Davanti ai genitori e parenti che affollavano la sala i protagonisti, ragazzini ed educatori, insegnanti e volontari, tra cui c'erano Ugo Pugliese, Mario Vitrone, Mauro o roman e anche se verso la fine, il sottoscritto, hanno illustrato le attività svolte tra le settimane nel quartiere e quella residenziale a Marechiaro. Quest'anno rischiamo di non ripetere questa esperienza educativa e ludica. Le richieste aumentano, ma i problemi sono i medesimi di quelli del 2011: gli operatori della Ludoteca di piazza Miracoli non ricevono lo stipendio da mesi, il comune è perennemente in rosso (salvo poi trovare magicamente i soldi per l'America's cup o per il Giro d'Italia, ovvero, gli eventi). La Ludoteca rischia la chiusura, e sarebbe un vero peccato buttare via il lavoro di anni, c'era un gruppo di bambini Sarawi che dovevano essere ospitati per le vacanze, e ora chissà se ne avranno la possibilità. Chiedo a questo punto alla giunta De Magistris quali siano le sue intenzioni. Si rendono conto questi signori, sindaco in testa, che siamo stanchi di promesse mai mantenute? di sentire lamenti sulla dispersione scolastica quando per compiacere le politiche di "razionalizzazione" del governo nazionale e regionale, chiudete scuole e centri aggregativi, biblioteche, i luoghi vitali per la cultura democratica? Speriamo che si passino una mano sulla coscienza e una nel portafogli, altrimenti sarebbe giusto quello che dice Pino Daniele, quando canta "Napule è na carta sporca, e nisciun se ne' mporta [vincenzo minei]

guardiamo il quartiere ...

Guardiamo il quartiere con altri occhi - Laboratorio di educazione al territorio anno 2013. 

Un elemento che incide fortemente sulla vita dei bambini e delle bambine, che caratterizza molti aspetti del loro vivere quotidiano e spesso ne condiziona anche il successo scolastico è la città, l’ambiente, il contesto di vita. I processi formativi che si mettono in atto nei “luoghi” educativi formali ed informali devono tenere conto di questo elemento ineludibile che inevitabilmente condiziona il raggiungimento degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Un impegno sul versante educativo deve tenere conto anche del contesto di vita, delle condizioni economiche e socio-culturali dei bambini a cui si rivolge, degli aspetti macro e micro economici che ne condizionano la vita. Come diceva Paulo Freire “Non c’è testo senza contesto”. Bisogna cioè tenere conto del contesto nel quale si svolge l’azione educativa se si intende l’educazione come pratica della libertà: L’educazione come pratica della libertà, all’opposto dell’altra che è pratica di dominio, comporta la negazione dell’uomo astratto, isolato, senza legami col mondo, e anche la negazione di un mondo slegato dagli uomini.[1]

Una prima analisi molto approssimativa del contesto di vita dei bambini della nostra città ed in particolare nel nostro quartiere (la Sanità), mostra come una parte dei nostri ragazzi vive “alla giornata”, senza memoria di sé e senza memoria collettiva del loro passato e del loro essere, spaesati, senza sogni e senza aspettative. Alcuni di essi vivono in contesti abitativi privi dei requisiti di minima vivibilità (alta densità abitativa, degrado, scarsa igiene). La loro casa è la strada dove trascorrono la maggior parte del loro tempo e il loro territorio è preda dell’antistato, la camorra, che ne controlla tutti i gangli vitali, ne controlla le dinamiche, lo gestisce a suo piacimento. Dunque alcuni dei nostri ragazzi crescono in questo mondo, del quale hanno interiorizzato profondamente le leggi, dove domina la legge del più forte, dove bisogna aggredire per non essere aggrediti. E dove si cresce troppo in fretta. Sono soggetti deboli, gli anelli più delicati di un’intricata catena.


Altri bambini e bambine vivono invece in case decenti, ben arredate, in zone connotate da un arredo urbano e una struttura urbanistica con caratteristiche accettabili da un punto di vista estetico anche se non brillano per gli aspetti che riguardano la qualità della vita delle persone che vi ci abitano. Ma nondimeno sono bambini e bambine che vivono in un contesto socio-ambientale-culturale poco, o per niente attento, ai veri bisogni dell’infanzia. Il loro rapporto con la città si limita al fatto di osservarla dai vetri del finestrino di un’automobile perché vengono accompagnati dagli adulti di riferimento (genitori, nonni, baby sitter…) in ogni posto in cui si recano. Passano da una scatola all’altra: dalla scatola stanza alla scatola ascensore, e poi all’automobile, alla palestra o alla scuola di danza, di musica ecc., e quindi di nuovo all’automobile e così via. Questi bambini vivono nella città ma non vivono la città. La abitano come osservatori esterni, non ne fanno esperienza diretta e in questo modo vengono privati del loro diritto alla curiosità, alla scoperta, all’avventura, al misterioso; vengono privati del loro diritto ad una conoscenza del mondo che li circonda.

Nella concezione organizzativa delle nostre città, i bambini che stanno per strada, che la frequentano, che ci giocano, sono solo quelli delle periferie e della povertà, trascurati dai genitori. L’assenza di un tempo organizzato è visto come sinonimo di incuria, pochezza e trascuratezza. Più i quartieri sono ricchi, più le strade sono libere da bambini che giocano e si riempiono palestre, corsi di musica, di pittura, di inglese, posti dove si impara qualcosa che servirà per il futuro da adulti. Spazi dove il tempo e l’organizzazione sono rigidamente regolati. Nelle nostre città i bambini, a qualunque ceto sociale appartengano, per motivi differenti ed a volte contrapposti, non hanno diritto di cittadinanza. Per recuperare questa dimensione bisogna tenere insieme pratica educativa e impegno sociale: una pratica educativa consapevole che porti la ‘vita’ al centro del suo interesse (fondare il progetto educativo sulla passione per la vita, per la relazione), che metta al centro della sua riflessione teorica e della sua azione il bambino con la sua storia, i suoi sentimenti, le sue esigenze; un impegno sociale ed educativo che promuova una nuova cittadinanza, una cittadinanza attiva, consapevole; un impegno che tenda a ridurre gli steccati che ci sono tra le diverse culture che convivono nella stessa città, nello stesso quartiere e che a volte sono più impermeabili di culture lontane migliaia di chilometri da noi.

Il nostro è un progetto di educazione al territorio che parte dalla necessità di stimolare nei bambini e nelle bambine una nuova consapevolezza rispetto al loro contesto di vita per guardare il quartiere con altri occhi, senza nascondere le problematiche più grosse ma facendo anche scoprire/riscoprire la parte positiva del quartiere, facendo riemergere dalla cappa di problemi che ci attanagliano quello che di bello e di buono (luoghi e persone) abbiamo nel nostro territorio. Tutto il percorso educativo tenderà a far sì che i bambini si sentano sempre di più parte di una comunità estesa e possano percepire il territorio non come una minaccia ma come una risorsa. Pensiamo che un progetto come questo possa contribuire ad una nuova idea di città, e questa ci sembra l’unica strada praticabile perché, come dice Colin Ward: … nessuna città è governabile se alleva cittadini che non la sentono propria.[2] [ugo pugliese - a cura di: Ludoteca Cittadina del Comune di Napoli 17° Circolo Didattico “Angiulli”]



[1] Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2002
[2] Colin Ward, Il bnambino e la città, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000

il rione è ovunque

Il rione non  ha bisogno di eroi, secondo il mio parere, non ha bisogno di capi profetici, di preti onniscienti né di prime donne. La gente non è poi così tanto diversa, non ha bisogno di essere accompagnata per mano. Io come cittadino del quartiere mi sentirei offeso nel vedere qualcuno che nel rappresentarmi subordina la mia volontà. Praticamente questo succede sempre quando un eroe s’accolla addosso un popolo, come un capo di stato, un sindaco, un cardinale.

Stimo molto padre Alex Zanotelli proprio perché nel rione, pur abitandoci da circa 10 anni, non ha mai ricoperto il ruolo di valoroso condottiero, come invece fanno altri per scopi reconditi o forse per megalomania. Se noi abbiamo voglia di cambiare, se cambiare significa fare meglio, questo tocca solo a noi farlo, i singoli che hanno voglia di portare il fardello delle fatiche creano nel tempo delusione, vuoti, e spesso anche disperazione.

La mia sensazione è che (ma non è solo la mia), giudicando questo luogo pericoloso, ogni persona di fuori quartiere, e anche qualcuna di dentro, associa la sua determinazione così come il suo impegno a una fase di redenzione salvifica, frapponendo il proprio immaginario ai pensiero degli altri, alle loro azioni e rappresentazioni. Nasce così un modello da seguire, oppure un “nuovo modello” trasformato in amore, riscatto, rispetto, un modello che impone la singola ideologia.

Le mie passioni, le mie disperazioni, la mie paure, le mie gioie, non sono poi così diverse da quelle della signora accanto; ovunque trovi un rione, ovunque trovi persone, ovunque trovi il sesso, ovunque trovi depressione, ovunque trovi amicizia, distacco, malvagi, probi. Se ritenete che siamo degli extra terresti allora comportatevi pure da eroi, ma non vi meravigliate poi se dopo un po’ ricerchiamo il nostro pianeta. [+blogger]       

fascio friariello



le proposte del comitato

Finalmente il Parco San Gennaro riapre: il Comitato Penninata S. Gennaro dei Poveri prende atto dello sforzo compiuto dalle associazioni di quartiere, della Municipalita’ e del Comune per la prossima riapertura del Parco, che e’ un bene comune di tutta la zona. Ma  tutti gli sforzi debbono essere compiuti per evitare che si ripetano gli episodi di cattiva gestione, di vandalismo e di ingiurie che hanno impedito che il Parco fosse frequentato dalla famiglie della scala e della zona.

Al primo posto ci deve essere la sicurezza,  e la notizia buona e’ che la vigilanza sarà garantita da operatori ed organizzati in turni diurni. A questi potrebbero affiancarsi anche volontari (pensionati, Boyscout) per evitare il fenomeno delle squadre di vandali che scoraggiano l’utilizzazione del Parco.

Sarebbe utile la predisposizione di un semplice regolamento basato su pochi punti: Rispetto della natura, rispetto delle strutture, rispetto delle persone. Deve esserci una campagna di comunicazione anche preventiva e le persone addette alla vigilanza debbono essere autorevoli e anche fisicamente distinguibili, mediante giacca, uniforme o semplice pettorina con scritta. Per la notte e’ necessario aumentare la protezione anti intrusione nei punti più facilmente accessibili, anche perché stiamo parlando di un’ inferriata di poche migliaia di euro. Ma soprattutto questo parco deve ‘vivere’, come vivono i parchi in altre zone della città. Ed il Parco vive se incontra i bisogni delle persone.

Per far questo non bastano gli eventi ed effetti speciali; bisogna ascoltare le persone che saranno naturali e quotidiani fruitori del parco: mamme con bambini, ragazzi, anziani; con loro va avviato un processo di vera e propria progettazione partecipata, con incontri soprattutto informali, semplici questionari ed anche forum su social network. Ma già da subito sulla base dell’ esperienza di lavoro in quartiere, il Comitato Penninata avanza le sue proposte di minima, da avviare al più presto.

Innanzitutto i bambini: un’attrazione naturale ed economica sono le strutture di base per giochi all’aria aperta: altalene, giostrine e castello di legno tipo Robinson. Per le mamme e gli anziani e’ importante installare un primo numero di panchine, senza le quali è difficile proprio pensare ad un parco. Per i ragazzi va tenuto in manutenzione il campo di calcetto, nel quale può essere prevista anche una rete di pallavolo che favorisce di più l’ incontro tra ragazze e ragazzi. Per gli anziani va costruito un campo da bocce e predisposto un tavolo per il gioco delle carte. Per i giovani si può pensare ad un tavolo di legno e panchine al quale sedersi per socializzare.

Vanno favoriti inoltre tutti i piccoli ‘lavori’ che  possono animare un parco, e a noi la fantasia non manca: un pony per fare un giro intorno al parco, un carrettino con bibite e gelati e magari una giostrina. Il Parco vive di più e viene automaticamente protetto se c’e’ qualcuno che ci lavora. Queste sono le prime proposte minimali ed il Comitato ritiene che debbano essere attuate subito; altrimenti la ‘creatura’ nasce morta. [Comitato Penninata]

un orso in piazza sanità

Il limite tra possibile e impossibile è un solco precario, dettato dalla nostra fantasia.  Ripenso a quella fantasia sbrigliata della nostra infanzia che ci rendeva tutto magicamente possibile. Il solo baluardo insormontabile era la volontà del genitore…allora, ma oggi, non più. Il mio ambulatorio in Piazza della Sanità, un piano rialzato, un’unica sala con volte a botte a ridosso di una gemente parete di tufo. Dal 1646 ha difeso, con il suo silenzio, chi vi abitava dalla storia che trascorreva a pochi metri: sovrani e vescovi in visita alla chiesa di S.Maria della Sanità, maestà imperiali di passaggio, per arrampicarsi su per salita Capodimonte con fastosi carri, trainati da affaticati buoi, a raggiungere la Reggia. Moti popolari, pestilenze, colera, carrette colme di cadaveri verso le grotte delle Fontanelle.

Durante i temporali fiumi di pioggia, veri torrenti sassosi, scendevano a valle, la “lava dei vergini” che distruggeva tutto, portando via uomini e cose. Sotto il pavimento dello studio a pochi metri, le catacombe di S.Gaudioso, misteriosi cunicoli nel tempo. Sino a pochi anni fa un gommista cercava forature in un loculo allagato, nel palazzo affianco. Poi distrusse tutto per un bagno piastrellato. In questo luogo, ora ambulatorio, qualcuno è nato, vissuto nel riverbero dei signori che abitavano ai piani nobili, ed è morto. Le parole, i pianti, le risa, i sospiri sono come polvere impalpabile su queste mura. Sarebbe divenuto, forse, il magazzino di un commerciante del posto se io non gli avessi donato ancora un’occasione di vita…perché vita è quella che vi scorre ogni giorno nelle ore di visita. Una vita vera, dura, a volte tragica, ma pronta a scoppiare in rumorosa allegria.

A volte sono rappresentazioni vere di una commedia popolare a cui si accompagnano applausi . Anni fa, durante un epidemia misteriosa che mieteva vittime tra i lattanti, mi venne ad intervistare un reporter di una rivista svizzera. Era reduce da una sanguinosa guerra in Congo e quella pausa, mi disse, per lui aveva i caratteri di un “bizzarro carnevale, un paradiso inatteso.” Non ho mai ritenuto degradante appartenere a questa rappresentazione perché ben conoscevo gli ambulatori asettici e sicuramente al confronto, molto squallidi, in zone più nobili della città. Mi ritengo uno di loro,oramai dopo quarant’anni, e vivo con loro per otto ore al giorno.

Torniamo a quel limite del possibile, di cui parlavo inizialmente per raccontarvi uno dei mille fatti che mi sono accaduti nel tempo. Ero tornato da una vacanza oltre il Circolo Polare. Allorché si valica questo parallelo invisibile nella immensa foresta norvegese, il consumismo è pronto ad accoglierti con i suoi mille articoli: diploma da esploratore, in pergamena, dove una bionda vichinga vi appone il vostro nome ed altre carabattole. Mi aveva colpito la riproduzione di un’insegna stradale che avevo realmente incontrato lungo la rotabile: un triangolo di pericolo con raffigurato al centro un orso bianco. Su quelle strade, d’inverno, è un incontro ipotizzabile. Lo acquistai e decisi, in seguito, di metterlo in studio sulla porta che dal mio ambulatorio conduce ad un secondo stanzino con i servizi. Ogni porta, soprattutto se non la si chiude, è uno stimolo di curiosità per i miei piccoli pazienti. Trovai indovinata, dopo aver apposto il cartello sulla porta, la mia frase scherzosa: “Bambini, di là non si può andare, c’è l’orso…vedete il cartello?”

Concetta Arrichiello era una madre giovane, una ragazzina in jeans e scarpe da ginnastica, una della nuova generazione, per intenderci, spigliata, attenta ai due suoi figlioli: Genni, sei anni e Damiano otto anni, frequentavano la scuola ed erano vestiti con cura. Quel mattino li visitai entrambi. Avevano scorto il cartello e Genni, il più discolo, si diresse verso la porta, deciso a vellicarla. Attendevo quel gesto per sfoderare la mia arma: - “Ragazzo di là non si può andare, c’è l’orso, non vedi il cartello?” Genni restò per un attimo sconcertato e venne ad abbracciare la madre che stava seduta di fronte a me, mentre scrivevo le ricette. Intuii che parlava sottovoce con lei. Concetta doveva rispondere qualcosa che non riuscivo a decifrare. Al momento del commiato si alzò e si diresse lentamente ed incerta verso l’uscita. I ragazzi la seguivano sconcertati, guardandomi. Arrivata alla porta Concetta mise la mano sulla maniglia, poi la lasciò e fece un passo indietro voltandosi verso di me. I nostri occhi si incontrarono. Ci fu una pausa imbarazzante. Il tempo si era fermato. I figli seri, guardavano la madre. Concetta non distolse lo sguardo dai miei occhi e disse:-“Dottò, posso chiedervi una cosa? -“Dimmi Concetta.”- risposi non indovinando la sua richiesta. - “Dottò, potreste far vedere, per un attimo, l’orso ai miei figli?”

carnevale alla sanità



la paga dei poveri prof

Quanto sono pagati i professori ordinari al massimo livello? Qualcuno può pensare che in materia educativa siano più rilevanti altre domande. Come sono formati, reclutati e pagati gli insegnanti di scuola primaria e secondaria? Quanto si spende per il funzionamento delle scuole e delle università? E, per restare a queste, come sono reclutate e pagate le persone giovani?

Con molto puntiglio, a partire dal 2003 Philip Altbach, professore al Boston college, ha faticato per costruire un quadro comparativo attendibile degli stipendi dei full professors. Tra i maggiori specialisti mondiali di higher education, è convinto che questa sia una spia per capire le politiche reali dei paesi. Ha superato reticenze, tabù, diversità dei sistemi di pagamento e tassazione, difficoltà nel comparare le cifre per la diversità di redditi medi e potere d’acquisto, di cui ha cercato di tener conto.

Con un’équipe internazionale Altbach ha infine pubblicato nei mesi scorsi Paying the professoriate. A global comparison of compensation and contracts. Tra saggi introduttivi e una conclusione d’insieme ci sono analisi di ventotto paesi a cura di specialisti indigeni (per l’Italia Gilberto Capano e Gianfranco Rebora). I risultati destano qualche sorpresa. Gli Stati Uniti non sono l’eldorado delle retribuzioni. Nei paesi del Bric ci sono stipendi da fame. Quanto ai professori italiani, in un’università che va a pezzi, il loro stipendio lordo è, subito dopo il Canada, il più alto del mondo. [tullio de mauro - internazionale 964]

i...a... non solo a... i...


quando la sanità non fa notizia

E’ accaduto giovedì 31 maggio, qualche sera fa. In piazza Sanità, in quella piazza che da decenni non celebra più la “Festa del Monacone”, improvvisamente si sono accese luci e riflettori sulla basilica; sul piazzale è stata srotolato un tappeto rosso lungo cento metri e in un’atmosfera magica uno sfondo musicale accattivante ha scandito i passi ora di danza ora felpati ora stile passerella di circa 45 tra modelle e modelli di una sfilata di moda. Sì, nel suggestivo antico scenario del rione Sanità c’è stato un evento di surreale contemporaneità: le ragazze ed i ragazzi dell’Istituto medio superiore “Francesco Caracciolo-Salvator Rosa”, guidati da docenti molto creativi e da una preside veramente in gamba (mai espressione fu più appropriata) hanno realizzato un evento di moda unico nel suo genere.
           
Hanno presentato, tra gli sguardi attoniti di centinaia di persone, capi di abbigliamento assolutamente inusuali e frutto di lungimirante fantasia. Giacche da uomo, vestiti da sera femminili, casacche, abiti da sposa e da cerimonia, vestitini da passeggio e via elencando: è sfilata l’attività didattica di un anno scolastico di un Istituto statale superiore dove si studia moda e costume. E ciò che ha caratterizzato la serale passerella della Sanità è stato un messaggio culturale, e non solo, di grande attualità: nel popoloso rione, culla del dialetto e della tradizione più pura, ha sfilato il futuro. Tutti i capi di vestiario erano rigorosamente disegnati e realizzati con materiali riciclati, minuziosamente raccolti, selezionati e catalogati in mesi di ricerca e di lavoro collettivo di un’intera comunità scolastica.
           
Gli abiti hanno sfoggiato, in originali sequenze, multicolori e scintillanti materiali inediti per la moda: tappi di bottiglia, luccicanti spille da balia, pacchetti di sigarette, guanti in lattice da infermieri, cannucce per bevande, piatti e bicchieri di carta, sacchetti di plastica, chiavi, fermacarte, fili elettrici usati, bottoni, chiusure lampo, cucchiaini per il caffé, contenitori per uova, camere d’aria di puro caucciù, lattine…Una sfilata di moda come una metafora: riutilizzare il prezioso rifiuto per dire alla Città e al quartiere che nel rione Sanità ci sono energie e risorse, intelligenze e giacimenti mentali da mettere in campo: risorse nascoste, quasi ignorate e che hanno un futuro, come lo sono i tanti oggetti che la sfilata di moda ha riutilizzato ed egregiamente valorizzato. Tra applausi e grida da maxiconcerti, tra sguardi ammutoliti dalla curiosità e da un coinvolgimento attento, il quartiere – che nelle sue viscere ancora fabbrica guanti e cinture, borse e scarpe – ha lanciato la moda dell’avvenire coniugando la cultura dell’usato e del riciclato, del riuso con un gusto estetico degno dei nomi più affermati della moda.

E’ accaduto a Napoli, è accaduto nel rione Sanità tra un assordante silenzio degli organi d’informazione e nel disinteresse generale di televisioni e operatori cinematografici. Non c’erano boss di camorra da catturare, non bisognava zoomare cumuli d’immondizia; l’evento non evidenziava i pregiudizi - veri o presenti - sul rione Sanità. Non c’era da fotografare il degrado o da documentare arretratezza, inciviltà, crimine. Poche sere fa la Sanità, uno dei più emarginati rioni periferici nel centro storico della Città, ha tenuto in piazza una lezione che ha unito comunità scolastica e Municipalità, popolazione e comunità parrocchiale, autorità comunali, ministeriali e anche qualche degno sponsor, facendo emergere dal ghetto il presente ed il futuro di una realtà sociale che si vuole e si sta riscattando ed ha voluto dirlo sulle gambe, con il corpo con la manualità e la mente di tante ragazze e di tanti ragazzi che a un passo del diploma hanno manifestato impegno, applicazione, voglia di fare e di esprimersi.
           
Lontano da riflettori e da tesi precostituite, da luoghi comuni e frasi fatte, la Sanità è scesa in piazza con la gioia e lo studio e la voglia di esserci di decine di giovani desiderosi di costruire il proprio presente e dando, essi - con la guida di docenti degni di questo nome - una lezione di ordinaria civiltà. Forse per questo è stato un evento oscurato, una notizia non-notizia: un assordante silenzio, l’assenza di fracasso mediatico ha circondato un evento memorabile. Memorabile, basta questa sola parola. [francesco ruotolo]

nadia e said


attuale monografia del rione

Il rione sanità non è mai stato così tanto raccontato come in quest’anno. Il 2012 ha “sfornato” scrittori e giornalisti, così come una Municipalità più attenta e un Comune pronto alle esigenze del quartiere, anche l’Asia sta facendo la sua parte. Così sono nati diversi libri, articoloni di giornale, rubriche ansa ecc. ecc., tutte sul rione, che nel bene e nel male parlano cercando di spiegare, se pur a volte con etichette e stereotipi di altri tempi. Tutti sembrano avere un concetto ben radicato in mente, l’identità del luogo.

L’identità è un discorso che merita un approfondimento, così come i molti scritti, a volte vere e proprie storture senza discernimento. L’ultima arrivata è una “monografia” digitale che potete trovare a questo indirizzo, una sorta di intervista al quartiere, qualcosa che mette in luce le differenze tra un B&B di lusso con un fabbrica a nero di scarpe che lavora per le grandi marche; così come l’artigiano guantaio si confronta con il blog del quartiere; e la religione fa i conti con l’economia e con il volontariato.

Un aspetto nuovo, criticabile, come del resto fanno moltissime persone che leggono questo blog. In ogni caso, tutti si dimenticano della storia, ma del resto è così lunga e complessa che una distrazione è “lungimirante”. Il rione è operaio, il rione è artigiano, il rione è resistenza fatta con le barricate alle via cristallini per cacciare i “fetentoni” tedeschi. Chi sa perché questo nessuno se lo ricorda mai. Il ghetto invece è attualità e ciò che fa “audience” non deve essere trascurato.

Comunque ringrazio l’autore giornalista che ha saputo raccontare senza (o in parte) trascendere il suo punto di vista. Antonio Siragusa in pochi mesi di ricerca sul campo ha saputo fare quello che decine e decine di persone che abitano nel rione o che dicono di studiare il quartiere non hanno mai fatto e forse non se lo sognano affatto: raccontare la dignità senza fronzoli. [+blogger]   

una scuola parallela

Mama meka kiyawannada (Leggete insieme a me); oyata wayasa kjyada...? (quanti anni hai?); saduda, agaharunada, badada, Brahaspatinda, sikurada, senosurada, irida. (Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato, domenica.); mama, oba, ohu/aya, api, obala, oun (io, tu, egli/ella, noi, voi, loro); sudu, koia, kaha, buduru, ratu... (bianco, verde, giallo, marrone, rosso...).  
Da diversi anni svolgo attività di volontariato, principalmente insegno italiano agli immigrati provenienti da tutto il mondo. Collabora attivamente con l’istituto Ozanam - piazzetta San Severo a Capodimonte 82. Responsabile suor Lucia. Nella scuola in principio ho insegnato agli alunni che già parlavano e scrivevano abbastanza bene l’italiano. Nel mio gruppo diversi hanno fatto l’esame di licenza media inferiore. Attualmente ho una classe di circa 15 ragazzi maschi e femmine di età diverse e tutti srilankesi che si sono trasferiti da poco in Italia. 


Quando, per la prima volta, ci siamo incontrati non sapevano dire anche buongiorno. Oggi io so “parlare” un po’ srilankese. Quando ci incontriamo loro salutano in Italiano, io invece nella loro lingua. La poca conoscenza, limitata a poche parole ma essenziali, stabiliscono quasi subito una reciproca simpatia soprattutto con le persone che non parlano affatto l’italiano. Questo metodo mi ha permesso di stabilire una relazione forte, matura, un approccio empatico e di fiducia reciproca.


Normalmente molti lasciano la scuola per problemi di lavoro o per imbarazzo. Chi non riesce a capire bene si “umilia” così tanto da vergognarsi anche dei suoi amici. Comunque il gruppo che insegno  adesso è abbastanza stabile, seguono con divertimento e credo che questo sia anche una normale conseguenza di un percorso che “quando inizia deve poi finire così come è incominciato”.


Quasi ogni settimana arrivano “alunni” nuovi, il problema è inserirli soprattutto quando, a metà del programma, molti hanno già superato una determinata soglia di difficoltà. Per fortuna che ci sono gli altri collaboratori e le altre collaboratrici volontarie. Il metodo d’insegnamento l’ho acquisito sul campo che poi ho adottato man mano, e quando potuto modificato, in relazione ai casi e alle storie degli immigrati. [+blogger]