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chiariscono anche gli altri

L’articolo di Mastandrea mi ha fatto pensare a un problema centrale degli intellettuali italiani, almeno dal mio punto di vista: l‘incapacità di entrare in contatto reciproco con l’uomo comune. Ovviamente l’autore aveva delle buone intenzioni, e altrettanto ovviamente si è servito piuttosto degli esperti dotti che delle persone su cui voleva scrivere. Ha attraversato il quartiere assieme a Ermanno Rea, ha discusso con Padre Alex Zanotelli, e infine ha tratto le sue conclusioni secondo uno schema abbastanza “provato”, cioè secondo quella alleanza di sentimentalismo e denuncia che io, come straniero, trovo spesso nei confronti del giornalismo sul popolo. 

Come ha menzionato Stefano de Matteis, autore del celebre libro sull’ “antropologia della città del teatro”, l’autocoscienza della borghesia napoletana non si è mai realizzata a pieno. Invece di rispecchiarsi nei comportamenti e nelle strategie del popolo la borghesia ha preferito il compromesso (le canzoni dolci, le cronache) , come dice de Matteis, evitando così allo stesso tempo di riconoscere se stessa e di autocriticarsi. In questa linea di un assistenzialismo “rosa”, privo di autocoscienza e altresì lontano dal prendere atto delle risorse del ceto basso, vedo anche l’articolo recentemente apparso sul “Manifesto”. E’ da diversi mesi che abito e studio nel rione Sanità. [Ulrich Van Loyen]

la risposta non ci convince

Nel 1934 il fotografo Robert Capa pubblicò una delle sue più famose fotografie, “il miliziano colpito a morte” che riscosse un grande successo e divenne un’ icona degli orrori della guerra. La foto in questione suscitò però anche molte polemiche: secondo alcuni testimoni, il miliziano non morì in quel luogo; altri giurarono di ave visto i negativi delle foto scattate in seguito le quali avrebbero riprodotto lo stesso miliziano che rialzarsi, correva. Credo che il lavoro di un giornalista non sia lontano da quello del fotografo, quando quest’ultimo “fotografa” e descrive ciò che gli sta intorno, e per quanto in buona fede, il suo lavoro si differenzia da quello dello scienziato sociale, che a scapito della sintesi, crea l’ossatura della propria ricerca in modo da evitare gli ostacoli che da sempre si trovano sul “cammino” verso una solida analisi scientifica: etnocentrismo, preconcetti, luoghi comuni, bias cognitivi e così via. Capisco che il suo lavoro di giornalista non richiede lo giustificarsi di una qualsivoglia linea metodologica (anche se è ovvio che in qualsiasi lavoro si applica una visione e una linea da seguire) ciononostante, in quanto giornalista, lei non può ignorare la pericolosità di un certo tipo di “fotografie”: quando nel suo articolo scrive frasi come: “una buona parte dei ragazzi... non ha mai visto il mare..” oppure “la disgregazione sociale appena mitigata dall'unica appartenenza comune: il tifo sfegatato”, quando lei cita la frase di Alex Zanotelli estrapolandola da un contesto diverso e incollandola nel suo articolo, lei cade purtroppo nello stereotipo e nel luogo comune anche se in buona fede. Che significa “una buona parte”? Quanti ragazzi ha visto? Cosa intende, per ragazzi? Bambini?, adolescenti? Da quale fonte ha attinto questa informazione? Questa variabile è presa in considerazione come indicatore di quale fenomeno in particolare? Su quali basi lei afferma che l’unica appartenenza comune fra i giovani del rione Sanità sia il tifo sfegatato? Come ha escluso le altre forme possibili? E’ per questo motivo che la letteratura scientifica è meno fruibile di quella giornalistica, non potendo, per motivi metodologici, sintetizzare un lavoro in due pagine di giornale e soprattutto perché, uno scienziato sociale, sempre e a-priori, deve esplicitare la sua metodologia e con essa gli ostacoli che lo portano ad una eventuale distorsione del fenomeno da descrivere. Io credo sia nei punti sopra citati, il fulcro della discordanza di punti di vista fra lei e il Sig. Caiafa, fra il giornalista e il sociologo. Non metto in dubbio l’onestà intellettuale che ha nel suo lavoro, ma con un po’ di umiltà dovrebbe chiedersi se le sue frasi “totalizzanti” (“l’unica appartenenza, ”l’unico modello”.. ecc.) descrivono la realtà complessa e varia di un rione dove vivono 65mila persone e dove probabilmente non esiste solo il sottoproletariato e la camorra come modello (e in ogni caso, se già uno solo degli abitanti di questo quartiere smentisce quest’affermazione, la generalizzazione risulta falsa in sé). Il suo lavoro è ben lontano da un tipo di ricerca di stampo sociologico, ma lei mi dirà, è un giornalista non un sociologo. Guardare la foto di Capa, ha aiutato i suoi contemporanei nella conoscenza degli eventi avvenuti durante la guerra civile spagnola? Certamente no, ma lui da ottimo fotografo ne volle fare il simbolo della brutalità della guerra, sinonimo di morte e sofferenza e non certo un trattato di storia. Il suo articolo avrebbe potuto essere almeno una bella fotografia: una foto per denunciare il fenomeno della povertà, della disoccupazione, della disgregazione familiare, della malavita organizzata, della mancanza dei mezzi forniti per arginare tali problematiche, avrebbe potuto sì prendere come esempio il rione sanità, ma inserendolo in un contesto più ampio e meno stereotipato. Ma a mio parere, è invece proprio descivendo il rione sanità in modo così estremo e totalizzante che ha toppato. Perché in guerra ci sono miliziani che muoiono ma la guerra non è la foto di un miliziano che muore.


Nota aggiuntiva riguardante la risposta pubblicata del Sig. Mastandrea
Nel suo articolo di risposta lei scrive:Ancora, mi dispiace contraddirla, ma la camorra purtroppo esiste e non c’è nulla che possa giustificarla
Non vedo assolutamente nel testo del Sig. Caiafa una qualsivoglia giustificazione alla camorra. Potrebbe indicarmela? Quando lei scrive:In ogni modo, sono pronto a rimangiarmi tutto il giorno in cui riuscirà a dimostrarmi che vent’anni di egemonia televisiva e politica berlusconiana non hanno avuto alcun influsso anche sugli abitanti del suo quartiere, ma soprattutto che alla Sanità, e in tutta la città, tifare Napoli o Juventus è più o meno la stessa cosa”. Non mi sembra che il suo articolo parlasse d’influsso della politica sul quartiere, né di situazione italiana, né della città di Napoli in generale. Il suo articolo prende come esempio - quasi come archetipo della decadenza e della camorra - il quartiere e i suoi abitanti, questi ultimi descritti come massa incolta e decadente, una massa che i pochi «illuminati» cercano faticosamente di emancipare. E’ così che vede il rione Sanità? E’ questa l’idea che ha sviluppato e che vuole descrivere? In ogni caso è questa l’impressione che ho avuto leggendo il suo articolo. Non sarebbe l’unico a pensarla così, questa visione è molto diffusa anche fra certi intellettuali «radical chic» ma è appunto la visione che critico e che ritengo distorta e fuorviante. La realtà è sempre più complessa e meno semplicistica che certe immagini stereotipate. E’ questo approccio che, mi sembra di capire, critichi il Sig. Caiafa e che critico con forza anch’io - e a ragione!: lo stereotipo viaggia veloce come la luce, marca l’immaginario collettivo, crea stigmatizzazioni, giustifica la sua stessa immagine distorta al punto che gli stessi abitanti del quartiere interpretino la realtà così come proposta dai media e la veicolino a loro volta. E’ questo il fulcro della critica non certo il giustificazionismo di cui lei parla e dal quale si difende. [Leandra Figliuolo]