arbeit macht frei

Il lavoro rende liberi. Come dire: era libero chi lavorava. Lo schiavo lavorava ventiquattro ore su ventiquattro al servizio del padrone o del signore di turno, eppure era libero. Il concetto di libertà si basava, e si basa tutt’ora, sulla quantità di fatica fatta al giorno, più ci si stancava più si era liberi.

Oggi un uomo che lavora per portare quanti più soldi “a casa”, uscendo alle sei del mattino e rientrando alle venti di sera è giustificato dal fatto che sta lavorando per la famiglia e per i figli. Prima valeva solo per l’uomo, adesso invece vale anche per la donna. La definizione è antica: il contadino lavorava la sua (attenzione), terra per il proprio mantenimento. Quando il padrone l’ha fatto lavorare per i suoi specifici scopi, l’ha anche convinto che lavorava per se stesso e in più per la sua protezione. Il contadino mangiava, il padrone anche, ma quest’ultimo proteggeva in cambio di “cibo”. Quindi il lavoro svolto per il padrone era libertà di vivere e non morire.

Attualmente è “normale” lavorare in un periodo di crisi otto ore al giorno ricevendo la paga di cinque ore (ma la crisi non finisce mai?), così come è normale che un padre rinunci alla bellezza di crescere un figlio solo per lo sfizio di essere libero. Quindi la libertà è strettamente relazionata al lavoro. Mi viene in mente la X incognita delle proporzioni. Quando le studiavo a scuola mi hanno sempre incuriosito. In questo caso si può dire che: Z:Y=Y:X ossia la libertà sta alla lavoro come il lavoro sta alla X. La crocetta indica che è l’incognita che equilibra la nostra vita, che ci fa vivere e che ci libera da una morte prematura. La vita è sacra e non va sprecata, chi ci difende dal male merita rispetto e devozione. Quindi il signore è forte, la sua forza indica anche il suo potere e la sua considerazione.

A fronte della pace c’è il lavoro. È risaputo che se l’uomo si sente minacciato per difendersi fa la guerra (quasi tutti lo fanno). Chi crea ricchezza lo fa tramite il lavoro, anche il lavoro degli altri. La mamma rinuncia al proprio figlio, il papà anche. Oggi i nonni hanno un ruolo fondamentale, mantenendo ancora l’equilibrio. Il lavoratore deve vivere nella sua libertà cioè il lavoro fatto anche per gli altri.


Condizione fondamentale è il lavoro e non la libertà in quanto variabile indipendente che genera effetti pacifici. La libertà è il suo effetto più immediato, quello che giustifica realmente l’equilibrio e la vita. Mai concetto e definizione così corrette hanno visto scientificamente provare l’esistenza senza la rinuncia. Arbeit macht frei: in fondo è solo un’equazione. [+blogger] 

il campione dei soldi

Ha 23 anni e una bella faccia da bravo ragazzo.
Ha segnato sei gol agli ultimi Mondiali, alcuni di pregevole fattura: nessuno sa quanto vale, ma è stato pagato ottanta milioni di euro.
L’ha comprato il Real Madrid, ovviamente: l’ha presentato il 22 luglio e tre giorni dopo aveva già venduto 350mila maglie con il suo nome stampato sul retro, ogni maglia a 97 euro. Il business ha fruttato 34 milioni di euro in due giorni. In Colombia le vendite sono state travolgenti, e più di metà delle maglie è ovviamente contraffatta: c’è scritto James, e sotto il numero 10.
Per le grandi squadre aggiudicarsi un giocatore è una manovra di marketing geostrategico, un ambito in cui il Real Madrid è il campione indiscusso. L’equazione è semplice: comprare una star equivale a comprare un mercato.
È possibile convincere milioni di cinesi a pagare per la maglia di Ronaldo. Se ci fosse un cinese che vale un decimo di Ronaldo, le maglie andrebbero via come il pane. Adesso il Real, come altre aziende spagnole, ha deciso che è arrivato il momento di spremere l’America Latina.
Così ha comprato il giovane James e ha cominciato a produrre cifre. Le cifre sono sempre sorprendenti, perché sono fatte per esserlo. Ogni estate, quando il calcio si ferma, comincia il campionato dei soldi. I soldi sono sempre più una notizia in sé: le voci, le cessioni e le fortune occupano le prime pagine e le conversazioni.
Il Real vince sempre questo torneo: comprare quanto c’è di più caro non è un errore o uno spreco, è un modo per rafforzare la sua identità. In un mondo in cui i milioni sono la legittimazione migliore, essere sempre il club che spende di più (il campione del mondo dei soldi) lo aiuta a essere quello che guadagna di più. Vendendo maglie, per esempio. Ma il business delle maglie è più di un business: è un’idea del mondo.
Negli ultimi anni il mondo si è riempito di persone che si etichettano dandosi il nome di altre. Spesso mi sono chiesto se Messi, per esempio, lo sappia. Lo guardo camminare in campo e mi chiedo se sappia – se sappia davvero, con una consapevolezza quasi fisica – quanti piccoli Messi camminano per le strade e i campi del mondo. In Africa, in Asia e in America Latina le maglie da calcio, spesso contraffatte, sono diventate uno dei capi di abbigliamento più comuni: le maglie da calcio sono la vera uniforme dei paesi poveri. Offrono qualcosa in più: non solo ti vestono, ma ti rendono qualcuno, parlano di te, ti includono in questo mondo magico.
A volte mi chiedo se Messi lo sa e, se lo sa, come fa a sopportarlo. Come fa a vivere sapendo che ogni cosa che fa sarà imitata, che ognuno dei suoi movimenti sarà seguito, ripetuto, commentato, imitato da milioni di persone. Succede anche a Ronaldo, a Neymar, a Rooney, a Robben e ad altri quattro o cinque giocatori. Adesso anche al giovane James. Nel mondo ci sono già moltissime persone che portano una maglia con su scritto James, 10: che si etichettano con il nome di un altro. Non solo persone che lo ammirano, non solo persone che lo adorano, ma persone che – entusiaste, segretamente malinconiche – indossano una maglia per dire: io vorrei essere lui, io dovrei essere lui, se la vita non fosse così imperfetta. [Martín Caparrós - fonte internazionale