Visualizzazione post con etichetta sociologia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta sociologia. Mostra tutti i post

benedetto rione sanità

Lo strabiliante successo che da diversi anni sta vivendo il rione: il quadruplicarsi del flusso turistico, le numerose associazioni che spuntano come funghi, le guide inventate, i negozi tinti e pinti (il migliore, il più buono, il più bello), pone una riflessione se non sul metodo almeno sulle cause principali del fenomeno “virtuoso”. Ideologia a parte, non è sbagliato che migliaia di turisti visitano ogni anno il cimitero delle fontanelle, le catacombe, le chiese, gli ipogei, i palazzi. Così come non è sbagliato che una attività commerciale sfondi per una invenzione o una prelibatezza. Ma le cause di un luogo storico ed artistico come il quartiere sanità non possono essere messe in relazione con il commercio, non c’è nessuna affinità tra arte ed economia, o no?

Questa una domanda cruciale quando visito luoghi turistici. Mi viene in mente il film “Mortecci” diretto da Sergio Citti, dove il povero Lucillo Cardellini (Sergio Rubini), è costretto a suicidarsi perché reduce dalla guerra. Credendolo deceduto in battaglia, nel suo paese d’origine edificano un museo in suo onore. Unica attività lucrativa, dove un po’ tutti ci campano, quando i parenti, i sindaco e il prete si accorgono che il soldato non è trapassato ma vivo lo processano e lo costringono a morire.

Ciò che mi fa sospettare è il fatto che oggi i media parlano del rione considerando in primis la camorra, poi una pizzerie ed infine una pasticceria. Non che ci sia una relazione tra queste tre entità, ma se le cause del successo, escludendo la prima, sono da attribuire al commercio, alla invenzione di un luogo storicamente di frontiera, al tarallo partenopeo, al caos dei motorini bhè allora il sospetto che l’artificio superi il buon senso non è poi così sconsiderato.

Un luogo ha le sue origini. Le pietre, le vie, i vicoli, le piazze hanno tutte una “identità” che si plasma con la gente. Il fruttivendolo sa cosa prendere al mercato, più arance e meno kiwi, anche il salumiere vende più mozzarella e meno prosciutto, e finanche il tabaccaio sceglie le sigarette secondo i gusti. Ma forse sto esagerando, solo che le differenze e le somiglianze di un territorio si imparano guardando i cittadini di quel posto, se puoi si giudica con attenzione è ancora meglio. La genesi di un rione che ha visto così tanti capò senza distinzione tra le diverse appartenenze, ha posto una diversa interazione che in un modo o nell’altro è sopravvissuta. Ma come spesso si scrive, quartiere senza una organizzazione, al contrario, questa mancanza ha creato una nuova forza comunicativa, qualcosa che nasce per identificazione, per riconoscenza, per amore.

Se un adolescente è morto per sbaglio, io non posso pensare che anche mio figlio muoia. Ho paura, sono preoccupato, cerco soluzioni, ma non posso andare via da casa, non ho né la possibilità né la voglia. Perché devo andare via io?!, andassero a fare in culo loro. Ma cosa faccio per ovviare alle mie preoccupazioni? Cerco delle strategie, le cerco per combattere e perché ho paura. Tremo perché mia figlia è andata a scuola, ma che faccio?, non la mando? Ho fiducia nelle istituzioni? Mi sento abbandonato, che per molti al massimo è solo una bella scusa, venite qui a vivere poi ne parliamo; io il coraggio di rimanere ce l’ho, voi fate solo i turisti per caso.         


Anche se sono uscito fuori tema, quello che mi va dire è che quando vediamo, camminiamo, fotografiamo questo benedetto rione Sanità, ci prendiamo l’anima del posto, la espropriamo delle sue caratteristiche, la esaltiamo come quando ci regalano un nuovo telefonino. E’ buono il fiocco di neve, è buona la pizza, la gente sembra indifferente, ma infondo sono abituati… poi finisce che il ricordo è solo un oblio, che sono stanco attraversando tutti questi i vicoli, e che il nuovo smartphone è già vecchio. [+blogger]      

la jella

Da diversi giorni sto intervistando persone che in qualche modo hanno avuto a che fare con la jella, e direttamente con qualche jettatore. Un caso molto particolare mi è parso un lavoratore che mi ha raccontato la sua odissea dopo aver scoperto che una persona, suo vicino, è un vero “profeta predicatore”. Gli ultimi venti anni della sua vita li ha passati a collezionare amuleti, corni, ferri di cavallo, scope e cornucopie. Una vera è propria catastrofe si abbatte sulla sua esistenza nel momento in cui qualcuno pronuncia il nome dello jettatore. Un uomo abbastanza intelligente che comprende le sue esagerazioni ma che non ha la forza di liberarsi da una credenza che lui ritiene provata scientificamente. Mi spiega: “la scienza prova un evento se e in quale situazione si verifica, beh io sono vent’anni che verifico ogni volta la stessa cosa. Il mio vicino porta scalogna, le prove sono schiaccianti e verificabili”. Mentre parla con me ha in mano un corno grande quanto un avanbraccio, riprende più volte un martello e qualsiasi cosa possa somigliare al ferro. Non vuol dirmi come si chiama lo jettatore, se solo lo pronuncia (e se solo gli capita di pensarlo), può succedere qualcosa di spiacevole. Mi dice che neanche io devo pronunciare quel nome, al massimo devo prima fortificarmi. 

In realtà "e per fortuna" non c’è tanta gente che parla in questo modo, il più delle volte si crede alla “negatività”, che mi è parso un discorso più filosofico. Ma credo che poche settimane di dialoghi e confronti non possono esaurire una ricerca specialmente se a condurla è un editore antropologo. Un artista abbastanza conosciuto a Napoli ha una sua singolare teoria a riguardo. “I napoletani in parte sono protetti dalla malasorte, questo perché nel golfo partenopeo c’è il Vesuvio. Il protettore è san Gennaro che squaglia il sangue. Il vulcano (che sputa fuoco), è annichilito dalla sagoma del santo che in testa ha un corno”. Infatti in tutte le raffigurazioni artistiche il mezzo busto di san Gennaro assomiglia alla sagoma del Vesuvio. Un immenso cratere tappato da un corno.

C’è chi in realtà uno jettatore non l’ha mai conosciuto, chi invece è agnostico, chi non ci crede e chi attribuisce la sfortuna ad una condizione di vita personale. In parte chi crede di essere sfortunato (e davvero lo è), percepisce tale sfortuna attraverso la mancanza di un bene materiale. Può darsi che l’attaccamento a qualcosa è così forte che il solo pensiero di perderla crea credenze minacciose. Ma anche questa supposizione trova la sua antitesi. La jella è un fenomeno che attraversa un po’ tutti gli strati sociali, le spiegazioni di chi ci crede, e di chi non ci crede, sono in parte simili ed affascinanti. La mancanza come forma di una esistenza critica e per contro una forma di bullismo invertito, che stigmatizza per sopravvivere. L’etichetta allo jettatore è una forma magica, quest’ultimo vive in un limbo corazzato, giocoforza chi subisce è sempre il credente. Aldilà degli stati d’animo un profeta nel 2016 non può esistere, lo jettatore è fuori tempo, è in una condizione anormale ed è per questo che minaccia.

Ma per contro c’è chi afferma l’esatto opposto. Un altro testimone è un artista di strada napoletano che ha dichiarato non solo di non aver mai conosciuto una persona che porta sfortuna, ma che non ha mai sentito parlare nessuno di questo argomento. Ha sì accennato a qualche episodio mettendolo però in relazione con le coincidenze della vita. “Non è vero ma ci credo” anche se ci sono uomini e donne in cui l’argomento non li ha neanche mai sfiorati. Mi rendo conto che in queste poche righe non ho per niente esaurito la mia fama di persona interessata all’argomento, in realtà prima di essere contattato dall’editore neanche io ci avevo mai pensato, ma il fascino di parlare con la gente, di scoprire che dietro ogni singolo c’è un altro singolo e forse altri ancora, è così meraviglioso che le sole prime interviste mi hanno fascinato l’anima. Mi piacerebbe diventare anche io come il mio primo informatore. Giovanni, così si chiama. Egli ha così tante convinzioni che mi ha sfidato dicendomi che non appena incontro l’innominabile la mia esistenza è segnata. Se così sarà, speriamo, avrò provato che davvero la jella non esiste. [+blogger]