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guardiamo il quartiere ...
Guardiamo il quartiere con altri occhi - Laboratorio di educazione al territorio anno 2013.
Un elemento che incide fortemente sulla vita dei bambini e delle
bambine, che caratterizza molti aspetti del loro vivere quotidiano e spesso ne
condiziona anche il successo scolastico è la città, l’ambiente, il contesto di
vita. I processi formativi che si mettono in atto nei “luoghi” educativi
formali ed informali devono tenere conto di questo elemento ineludibile che
inevitabilmente condiziona il raggiungimento degli obiettivi che si vogliono
raggiungere. Un impegno sul versante educativo deve tenere conto anche del
contesto di vita, delle condizioni economiche e socio-culturali dei bambini a
cui si rivolge, degli aspetti macro e micro economici che ne condizionano la
vita. Come diceva Paulo Freire “Non c’è
testo senza contesto”. Bisogna cioè tenere conto del contesto nel quale si svolge l’azione educativa se si intende
l’educazione come pratica della libertà: L’educazione
come pratica della libertà, all’opposto dell’altra che è pratica di dominio,
comporta la negazione dell’uomo astratto, isolato, senza legami col mondo, e
anche la negazione di un mondo slegato dagli uomini.[1]
Una prima analisi molto approssimativa del contesto di vita dei bambini
della nostra città ed in particolare nel nostro quartiere (la Sanità), mostra
come una parte dei nostri ragazzi vive “alla giornata”, senza memoria di sé e
senza memoria collettiva del loro passato e del loro essere, spaesati, senza
sogni e senza aspettative. Alcuni di essi vivono in contesti abitativi privi
dei requisiti di minima vivibilità (alta densità abitativa, degrado, scarsa
igiene). La loro casa è la strada dove trascorrono la maggior parte del loro
tempo e il loro territorio è preda dell’antistato, la camorra, che ne controlla tutti i gangli vitali, ne controlla le
dinamiche, lo gestisce a suo piacimento. Dunque alcuni dei nostri ragazzi
crescono in questo mondo, del quale hanno interiorizzato profondamente le
leggi, dove domina la legge del più forte, dove bisogna aggredire per non
essere aggrediti. E dove si cresce troppo in fretta. Sono soggetti deboli, gli
anelli più delicati di un’intricata catena.
Altri bambini e bambine vivono invece in case decenti, ben arredate, in
zone connotate da un arredo urbano e una struttura urbanistica con
caratteristiche accettabili da un punto di vista estetico anche se non brillano per gli aspetti che riguardano la qualità
della vita delle persone che vi ci abitano. Ma nondimeno sono bambini e
bambine che vivono in un contesto socio-ambientale-culturale poco, o per niente
attento, ai veri bisogni dell’infanzia. Il loro rapporto con la città si limita
al fatto di osservarla dai vetri del
finestrino di un’automobile perché vengono accompagnati dagli adulti di
riferimento (genitori, nonni, baby sitter…) in ogni posto in cui si recano.
Passano da una scatola all’altra: dalla
scatola stanza alla scatola ascensore, e poi all’automobile,
alla palestra o alla scuola di danza, di musica ecc., e quindi di nuovo
all’automobile e così via. Questi bambini vivono nella città ma non vivono la città. La abitano come
osservatori esterni, non ne fanno esperienza diretta e in questo modo vengono
privati del loro diritto alla curiosità, alla scoperta, all’avventura, al
misterioso; vengono privati del loro diritto ad una conoscenza del mondo che li
circonda.
Nella concezione organizzativa delle nostre città, i bambini che stanno per strada, che la frequentano, che ci giocano, sono solo quelli delle periferie e della povertà, trascurati dai genitori. L’assenza di un tempo organizzato è visto come sinonimo di incuria, pochezza e trascuratezza. Più i quartieri sono ricchi, più le strade sono libere da bambini che giocano e si riempiono palestre, corsi di musica, di pittura, di inglese, posti dove si impara qualcosa che servirà per il futuro da adulti. Spazi dove il tempo e l’organizzazione sono rigidamente regolati. Nelle nostre città i bambini, a qualunque ceto sociale appartengano, per motivi differenti ed a volte contrapposti, non hanno diritto di cittadinanza. Per recuperare questa dimensione bisogna tenere insieme pratica educativa e impegno sociale: una pratica educativa consapevole che porti la ‘vita’ al centro del suo interesse (fondare il progetto educativo sulla passione per la vita, per la relazione), che metta al centro della sua riflessione teorica e della sua azione il bambino con la sua storia, i suoi sentimenti, le sue esigenze; un impegno sociale ed educativo che promuova una nuova cittadinanza, una cittadinanza attiva, consapevole; un impegno che tenda a ridurre gli steccati che ci sono tra le diverse culture che convivono nella stessa città, nello stesso quartiere e che a volte sono più impermeabili di culture lontane migliaia di chilometri da noi.
Il nostro è un progetto di educazione al territorio che parte dalla
necessità di stimolare nei bambini e nelle bambine una nuova consapevolezza
rispetto al loro contesto di vita per guardare
il quartiere con altri occhi,
senza nascondere le problematiche più grosse ma facendo anche
scoprire/riscoprire la parte positiva del quartiere, facendo riemergere dalla
cappa di problemi che ci attanagliano quello che di bello e di buono (luoghi e
persone) abbiamo nel nostro territorio. Tutto il percorso educativo tenderà a
far sì che i bambini si sentano sempre di più parte di una comunità estesa e
possano percepire il territorio non come una minaccia ma come una risorsa. Pensiamo
che un progetto come questo possa contribuire ad una nuova idea di città, e
questa ci sembra l’unica strada praticabile perché, come dice Colin Ward: … nessuna città è governabile se alleva
cittadini che non la sentono propria.[2] [ugo pugliese - a cura di: Ludoteca Cittadina del
Comune di Napoli 17° Circolo Didattico “Angiulli”]
[1] Paulo Freire, La
pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2002
[2] Colin Ward, Il bnambino
e la città, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000
rete "barracano"
I
libri e gli interventi mediatici di Serge Latouche cominciano a fare il loro
effetto. La “decrescita felice” non è solo un concetto nato dalla pensiero di
un filosofo-antropologo. Comincia ad essere uno strumento metodologico di
cambiamento sociale ed economico. Un anno fa se ne parlava come di un’esperienza
pilota. Oggi alcuni sociologi lo indicano come un modello. Del quartiere Sanità
di Napoli se ne parla e se ne scrive in decine di giornali, in centinaia di
siti e in migliaia di messaggi disseminati su tutti i social networks. Tutto è
cominciato, alcuni anni or sono, con le iniziative di restauro e di
riqualificazione delle Catacombe di San Gennaro, promosse da una cooperativa di
giovani chiamata “La Paranza”. Sulla scia del successo di questo progetto
culturale, un piccolo gruppo di abitanti del quartiere, affiancati da
personalità di spicco della vita culturale della città, sacerdoti, artisti,
intellettuali, scrittori e cineasti, - nella lista dei “padrini” spiccano, fra
gli altri, i nomi di Peppe Barra, Lina Sastri, Erri De Luca, Paolo Sorrentino, Toni
e Peppe Servillo e, il più attivo fra tutti, John Turturro - hanno creato la
rete Barracano, dal nome del sindaco del Rione Sanità che Eduardo de Filippo a
reso celebre nel mondo intero. Paleocontemporaneo Art Shows (PAS), gli Iron
Angels, i Guests Angels, gli Urban Angels e gli Events Angels sono una
costellazione di associazioni cooperative no profit che, sotto l’impulso del
comitato promotore della Rete Barracano, sono riusciti à realizzare in questo
mitico rione della città storica una vera e propria rivoluzione culturale.
Anche se molti lettori la conoscono per averne seguito le vicende nel corso
degli ultimi mesi, avvenimenti recenti degni di interesse giustificano una sua
“rivisitazione”. Benché la
Rete Barracano avesse da mesi preparato il lancio del loro progetto culturale,
i media e il pubblico napoletano ne hanno scoperto la sua esistenza la notte
del 2 luglio di quest’anno, - giorno della festa del santo del quartiere, San
Vincenzo Ferrer detto “O’ Monacone” - quando nello slargo di Via Vergini, nel
cuore del quartiere, i giovani della Rete hanno organizzato il primo incontro
informativo con la popolazione del quartiere, conclusosi con il
“Concerto-Evento di Beppe Barra” e la sua prestigiosa compagnia. Il loro scopo:
coinvolgere la popolazione nel loro progetto per far rinascere il quartiere dal
suo degrado economico e sociale.
Le
associazioni cooperative della rete Barracano si sono inventati un nuovo
concetto di turismo culturale di qualità che, se fosse adottato in tutte le
città e borghi storici del nostro paese, potrebbe risolvere in gran parte i
nostri endemici problemi di disoccupazione e di sottosviluppo economico e
sociale. Gli abitanti del quartiere chiamano questa forma di accoglienza “spalla
a spalla”, tradotta dai sociologi della progettazione culturale con
l’espressione “convivialità partecipata”. Per dare concretezza ai loro
progetti, traendo ispirazione da questa idea, i ragazzi delle cooperative,
coadiuvati da alcuni studiosi di antropologia della comunicazione, hanno prima
di tutto redatto una sorta di manifesto/guida. Questa “magna carta” progettuale
rivoluziona totalmente la logica che caratterizza quasi tutti i progetti e le
iniziative che mirano a sviluppare il turismo. Innanzi tutto, il termine stesso
“turista” è cancellato, inesistente in tutti i documenti d’informazione. Le
persone accolte dai “Guests Angels” sono, per l’appunto, dei guests,
vale a dire ospiti del quartiere e futuri probabili membri attivi della Rete,
anche se non residenti nel quartiere. Per questa ragione, ogni forma di
marketing turistico è bandita e, decisione a dir poco “rivoluzionaria”, tutte
le associazioni, che già sono per loro natura no-profit, non fatturano nessuno
dei servizi offerti ma accettano solamente doni a sostegno di un programma
autonomo di rinnovamento sociale e culturale del quartiere. Gli ospiti, quasi
tutti stranieri o residenti all’estero – molti sono i napoletani emigrati, che
hanno fatto fortuna nei paesi del nord Europa - sembrano apprezzare il fatto
che i loro contributi non sono il prezzo di un servizio reso (l’accoglienza, i
pernottamenti, i pasti, le visite guidate, la partecipazione agli eventi, la
visita dei luoghi, delle mostre organizzate, ecc.), ma quote di adesione ad un
ambizioso progetto il cui scopo, fra gli altri, è quello di sostenere la
popolazione di un intero quartiere in un periodo di grave recessione economica.
“Attenzione!” mi dice Salvatore, uno dei coordinatori della rete delle
cooperative. “Non di beneficenza si tratta ma di condivisione partecipata. Il
dono di scambio non va confuso con l’elemosina. Questa forma è molto apprezzata
dalle Fondazioni straniere che hanno aderito alla Rete. Noi offriamo ad
esempio, ai nostri ospiti amici soggiorni a Napoli di eccellente qualità – come
lo sono i nostri Beds & Breakefasts, le “guests rooms” che gli “Iron
Angels” hanno arredato in molti appartamenti privati della Sanità, i pasti e le
consumazioni offerte dalle famiglie, i bar e le trattorie con noi
convenzionati, - e i nostri Guests con i loro contributi forfettari in quanto
membri della Rete ci permettono non solo di coprire i costi, ma anche di
finanziare una serie di servizi resi al quartiere e ai suoi abitanti. Lo sa che
con la collaborazione ed il sostegno dei Guests di una impresa svizzera di
pulizia, i volontari dell’ “Urban Angels”, per esempio, hanno lanciato il
programma “Sanità Risanata” che, oltre alla ripulitura e a leggeri restauri di
alcuni edifici, sta realizzando con successo la raccolta differenziata dei
rifiuti?” Insomma, questi “angelici” volontari stanno dimostrando che per far
rinascere un quartiere a nuova vita non c’è alcun bisogno né di elemosinare
sussidi pubblici né di far fare affari alle camorre o dare mazzette ad imprese
private. La “terza via” intrapresa dalle cooperative che fanno capo alla Rete
Barracano punta su due fonti di una ricchezza che qui a Napoli certamente non
manca: l’amicizia e il lavoro.
Nuova,
originale e inedita è stata la maniera che i giovani della Rete si sono
inventati per lanciare il loro progetto senza chiedere un solo euro né alle
autorità pubbliche né a degli sponsor. “Un anno fa, - ci dice Salvatore Russo -
siamo entrati in contatto con le associazioni dei napoletani delle città di
Ginevra, Zurigo e Basilea. Abbiamo fatto un accordo che prevede l’accoglienza
di molti di loro nel quartiere Sanità secondo le “regole” stabilite nel nostro
manifesto “spalla a spalla”. Nello stesso tempo, il Rotary Club di
Castel dell’Ovo ha promosso una cordata di rotariani napoletani che si sono
“gemellati” con quelli di Ginevra, Losanna e Zurigo per organizzare
l’accoglienza dei loro membri e conferire ai visitatori svizzeri il titolo di
“residenti virtuali del quartiere Sanità”. In pochi mesi i nostri ragazzi hanno
organizzato soggiorni, conferenze, visite culturali ed eventi artistici e
musicali per varie centinaia di ospiti molti dei quali hanno creato legami di
amicizia con la gente del quartiere. Ad alcuni, i più entusiasti, è stato anche
conferito il titolo di “residenti virtuali del quartiere Sanità” e se ne
tornano a casa col “Passaporto Sanità”, per rivenire a ritrovare dopo qualche
mese i loro amici del quartiere. Qui da noi non si parla di “turismo”. Questa
parola è bandita dal nostro linguaggio. A Napoli, il turista è un animale da
spellare. Un bipede stanco ed impaurito, sperduto nella giungla dei quartieri,
alla ricerca disperata di luoghi dove osservare in tre dimensioni quello che ha
già visto nelle foto delle sue guide o nelle immagini pubblicitarie delle
agenzie di viaggi. I nostri guests il portafoglio se lo possono dimenticare a
casa. Non corrono alcun rischio di essere vittime delle bande di “acchiappa
turisti”. Capisce adesso perché il nostro progetto ha riscosso un tale
successo? Gli eccellenti risultati dell’operazione ci ha obbligati a creare una
lista di attesa! E poiché “da cosa nasce cosa”, alcuni dei nostri giovani
volontari sono già stati invitati a completare la loro formazione in Svizzera
con borse di studio delle fondazioni elvetiche che apprezzano il nostro impegno
e la nostra etica.”
Ho chiesto a Alex Zanotelli, uno dei promotori ed animatori
della Rete, come spiega il successo folgorante della loro iniziativa. “E’ tutto
molto semplice – mi dice. Gli amici stranieri ed italiani, ospiti e
sostenitori, che ci accompagnano nel lavoro della nostra Rete scoprono un
quartiere abitato da gente che sa sperare e che sa credere nella solidarietà
come valore e nello scambio reciproco ed equilibrato come strumento alternativo
al dominio del mercato. E’ per questa ragione che essi stessi si sentono
coinvolti in “spalla a spalla” che nel Vangelo ha un altro nome: si
chiama amore. E l’amore più che un sentimento è una pratica. Una pratica
rivoluzionaria.” [fabrizio sabelli]