ni hombres ni mujeres

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Può sembrare un paradosso che il primo gruppo che ho incontrato all'arrivo nel sudamerica machista sia stata la comunità TTTI: Travestis Transgender Transexuales Intersex argentina. Ed effettivamente è così. La cosa liberatoria dei paradossi però, scriveva Deleuze, sta precisamente nella loro capacità passionale di spezzare l'unidirezionalità del pensiero e di aprire varchi in direzioni impreviste. Questa la meraviglia della comunità TTTI: la capacità di rompere con il pensiero di genere tradizionale e di aprire a prassi e formulazioni teoriche nuove. Due premesse. Primo: la letteratura che si sofferma sui travestis argentini è ancora scarna ma espressiva: da Lohana Berkins, attivista travesti argentina lucida, passionale e combattiva che nel 1995 ha contribuito a fondare l'ALITT (Asociación de Lucha por la Identidad Travesti y Transexual) e che si autodefinisce “un travesti, una donna, socialista, indigena, grassa, povera, di colore, lavoratrice e di più”, che vorrebbe “creare un mondo in cui essere accettata per tutto quel che sono.” Josefina Fernandez, la prima a rompere il silenzio nel 2004 con Cuerpos Desobedientes e poi curatrice con Lohana Berkins di La Gesta del Nombre Propio nel 2005. Mauro Cabral, attivista trans ed intersex di Cordoba. Amalia E. Fisher Pfaeffle e Diana Maffìa, responsabile Pari Opportunità della Ciudad de Buenos Aires e autrice del recente Sexualidades Migrantes. Il contesto in cui questi autori scrivono (ed è la seconda premessa) è un contesto contraddittorio e intricato. Figli ripudiati di un continente tradizionalmente machista, che nella città di Buenos Aires trova un'“isola felice” ancora contraddittoriamente oscillante tra conservatorismo e cosmopolitismo; cugini poveri e declassati del movimento gay bianco in America del Nord, che mantiene un'egemonia di nazionalità, di classe razza genere e di mille cose ancora sul movimento LGBTTTQI sudamericano; e bersagli di istituzioni che continuamente li ricacciano nell'assimilazione, i travestis argentini si trovano a subire una marginalità multipla, ironicamente costretta tra una visibilità prorompente ed una invisibilità gelida. I dati relativi alla segregazione istituzionale sono tremendi: il 90% dei travestis argentini arriva a Buenos Aires dalle province eteronormative del nord e secondo una inchiesta dell'ALITT solo l'11% all'arrivo in città riesce a lavorare fuori dal mercato della prostituzione. La chiusura anti-trans del mercato del lavoro è generalizzabile alla scuola: il 76% dei travestiti non completa la scuola superiore; la minoranza che completa l'università a quanto pare reprime la propria sessualità nei pantaloni maschili per lunghi anni mentre il 64% non termina nemmeno la scuola elementare, in un drop-out che coinvolge anzitutto le ragazzine di 12-14 anni, particolarmente sensibili a quell'età alla discriminazione dei compagni. La salute è parimenti problematica, con l'incubo delle visite mediche o del ricovero nel reparto uomini, per cui dice Lohana Berkins, “molti travestiti preferirebbero morire giovani che esporsi ad un tale trattamento”. Se a queste cose aggiungiamo la brutalità della polizia, esperienza dell'86% dei travestis, la povertà cronica e il dolore di chi è strutturalmente unfit, arriviamo ad una aspettativa di vita scioccante: trent'anni. Secondo Marcela Romero solo l'1% della popolazione travestis raggiunge i 60 anni. Il 20% viene assassinato ed il resto muore di AIDS o di suicidio in genere appunto tra i trenta ed i trentacinque anni, con valli sino all'età giovanissima di quindici. Una situazione istituzionalmente difficile dunque, che si complica nel movimento LGBQ, dove dai primi anni novanta i TTTI, insieme alle donne omosessuali, sono stati centrali all'organizzazione della marcha del orgullo di Buenos Aires, e dove tuttavia la visibilità politica dei TTTI è stata per anni assimilata e marginalizzata: “le lesbiche rifiutavano la nostra femminilità considerandola un'altra delle varie manifestazioni dell'orientamento gay, ed i gay semplicemente si meravigliavano del nostro glamour e simultaneamente ci escludevano dalla loro comunità”. Fast-forward al 1991. Nel 1991 nasce l'ATA, Asociación de Travestis Argentinas, il primo travestis group nel paese. La sua prima azione pubblica è ottenere la rimozione dei cosiddetti Edictos Policiales dell'era Peron, che punivano con il carcere un numero di attività socialmente innocenti come il ballo con persone dello stesso sesso e il cross-dressing. Gradualmente ATA ha assunto un ruolo indipendente all'interno del dibattito di genere argentino, poi dividendosi nel 1995 in ALITT, Asociación de Lucha por la Identidad Travesti y Transexual e OTRA, Organización de Travestis de la Republica Argentina, ed arrivando di recente a far adottare all'interno della Città di Buenos Aires una legge per la quale i travestis hanno il diritto di scegliere un nome proprio istituzionalmente valido corrispondente alla identità di genere. Cosa c'è di interessante in tutto questo? È vero, il dibattito non è nuovo. La critica all'esistenza di due forme corporee morfologicamente ideali e separate, il maschile ed il femminile muore già con Foucault e poi definitivamente con Judith Butler, che in Gender Trouble introduce l'idea poi ripresa dal movimento intersex e queer di una continuità corporea di genere non riducibile ad un sistema binario. Il movimento queer ha ripreso questa prospettiva rivendicando il diritto all'auto(s)definizione continua, per cui la libertà dell'“identità” diventava esattamente il rifiuto dell'identità e della definizione (salvo ricatalogazioni successive eventualmente contraddittorie). Ma se il movimento travestis argentino ha dei punti in comune con il movimento queer, laddove i due si differenziano è nelle origini eteronormative, cattoliche, alternativamente dittatoriali, periferiche in termini di classe e di razza spesso estreme dei travestis argentini, e nel significato specifico di travesti in argentina. A differenza degli altri paesi occidentali, in argentina e in brasile il travesti non è semplicemente il cross-dresser, col@i che veste trans/genere, ma è una persona che rifiuta di identificarsi con le identità binarie. Inassimilabile al transgendered o al transessuale, il travestis vive una discronia tra sesso e genere. La (supposta) continuità corpomente dell'etero, ricercata ed in larga parte ricreata dal transgendered e dal transexual nel perseguimento di un'armonia sesso-genere autodeterminata, è nel travestis discronica, in quanto il travestis vive un conflitto che non si risolve nella riassimilazione nei binarismi ma che preme per l'abbandono tout court delle logiche binarie e per la liberazione polimorfa ed estatica del desiderio, della sessualità e dell'affettività. Il trasvestis dunque non cambia sesso nè genere: li vive entrambi nella zona di confine, che in questo caso è spazio di disagio. Vuole vivere la propria unicità che è l'unicità dell'intersex se vogliamo, l'unicità di tutti infondo, ma una unicità fatta di conflitto. Questi due contesti problematici, il contesto d'origine ed il discomfort interiore, questa duplice assenza di rifugio del travestis, ne sono la forza propellente, l'energia che guida all'elaborazione singolare di uno spazio spiazzante al di fuori delle opzioni possibili pregno di potenzialità politiche. Consideriamo la recente Gesta del Nombre Propio. Dicevamo che a partire dal 2006 i travestis possono scegliere un proprio nome, una propria identità. L'elaborazione teorica della rivendicazione è meravigliosa. Scriveva Claris Lispector che l'unica parola che ha senso scrivere è quella inesistente. Quella incarpibile che vive nel vuoto. L'unica identità che ha senso assumere è quella mai esistita, e l'unico nome proprio per noi stessi è quello che nasce ora. Così per Lohana Berkins, il punto di partenza delle rivendicazioni TTTI è il rifiuto del dualismo e di tutte le logiche binarie, l'abbandono del punto di arrivo per un punto di partenza che si ribella alle opzioni esistenti anche nelle istituzioni più rigide e cristallizzate come il binarismo di genere. “El binarismo nos enferma”, ci mutila, dice, ci fa ammalare. Noi non siamo ni hombres ni mujeres. Il nostro è un terzo genere, un terzo mondo. “Autonomia corporal”, rivendicano i travestis, non un nome dato ma un nome proprio, autodeterminato, in un processo di autoproduzione personale e sociale continua che al procedere sgretola i rifugi esistenti e che è tanto più incredibilmente radicale quanto più infondo oggi, ciò che per i travestis argentini significa una soggettività libera è pur ancora prostituzione ed un'aspettativa di vita di trent'anni. Un bisogno di ribellione tanto più disperato e libero dunque, quanto più consapevole che dietro a sé non c'è nulla da salvare. Cosa di importante in questo dicevamo. Desessualizziamo e politicizziamo, spostiamoci in Italia. Sarà la tradizione cattolica o aristocratica, sarà la religione dell'imprenditore diffuso, ma la tradizione politica in Italia (e non solo) ha tra le sue più pericolose abitudini l'educazione ai binarismi, alle dicotomie, alle definizioni duali, antagonistiche. L'istituzionalizzazione di un mondo di buoni e cattivi, di destra e sinistra, di dittatori e resistenti, crea un'abitudine alle logiche binarie, e con essa un quasi inconfessabile bisogno di punti di riferimento autoritari, che sono la spiegazione, semplicistica certo, del revival contemporaneo di modelli politici primitivi. Ecco che in un contesto sovrastimolante e caotico come quello contemporaneo, disorientante e incerto si usa dire, ove l'insicurezza, lo smarrimento è forma più lucida di consapevolezza, il binarismo antagonista è una protezione. Laddove vi è incertezza politica ed esistenziale, la contrapposizione binaria offre radicalismo, sicurezza, una personalità forte in luogo del naufragio. In questo bianconero dualistico non c'è movimento o sperimentazione. C'è obbedienza, un processo di riordino dei mille volti dell'individuo che lo impallidisce, lo svuota e lo istituzionalizza, in un iter che paradossalmente nel suo essere desoggettivante e deresponsabilizzante diventa a volte più seducente e rassicurante della libertà. In questo contesto la scelta trans è la manifestazione degli altri sé, la liberazione dei mille sessi e dei mille ossimori impauriti ed agognanti in ognuno. È spazio politico di una trasformazione eccessiva ed estremista esattamente come lo è il desiderio appena liberato dal dover essere. Berkins parla del ruolo dello spettatore nella performance trans. Dice che l'ossessione del suo sguardo ipnotizzato è misura della discriminazione successiva contro il trans. Possibile, ma parimenti l'osservazione ossessiva è proiezione del proprio desiderio timoroso ed inespresso di trascendenza. In questo contesto la terra di nessuno di genere cessa di essere un terreno trans per diventare un territorio politico trasversale. Uno spazio di sperimentazione e di espressione anti-normativa inopportuno illecito ed addirittura imbarazzante ove dare espressione pubblica ai desideri più indicibili, lancinanti ed impacciati di ognuno. Ove, dice Jon Fernández: “Giochiamo col genere, facciamo performances, ci accarezziamo col corpo e coi genitali, accarezziamo tutto ciò che ci piace. […] Ci operiamo, ci ormoniamo, giochiamo con l'ambiguità cosicché il mondo cambi, e cosicché cambi la sua idea di noi. Perché la nostra intenzione è tergiversare e confondere, aggiungere un po’ di caos a questo mondo in cui altrimenti muoverebbe solo la normatività”. Un gioco a un tempo disarmato e dissacrante dunque, il trasformismo trans. Un gioco il cui scopo è creare uno spazio sociale protettivo ove accogliere i sé più intimi ed unfit. Ove dare espressione politica al desiderio oppresso e alla voglia d'amore, il grande sconosciuto dei movimenti binari ed antagonistici. Ove muovere un passo in una direzione inesistente a partire dalla rassicurazione dell'errore inevitabile, trasformando il timore in legami dolci. Un luogo in cui poi perdersi, perdersi nel vuoto a partire dall'insalvabilità del presente, in una via di fuga inevitabile, dolceamara, spaventata, libera. [francesca coin, “loop” n.6 gennaio - http://novemberdiaries.blogspot.com/]

9 commenti:

Fabrizzio F. ha detto...

interesasnte quest'articolo, ho visitato anche il blog. la rivista loop non la leggo. ma mi chiedo al di là delle vostre battaglie contro le "diversità", non ci vorerbbero più iniziative sul campo per sdradicare questa cultura unilaterale? grazzie mille. la sanità sempre nel mio cuore e nella mia pelle.

sara ha detto...

letto tutto con avidità e soprattutto molto interesse, complimenti all'autrice.

Anonimo ha detto...

interessantissimo quest'articolo, ho sempre saputo che dal sud america e dall'africa la rivoluzione in senso culturale, politico già è avvenuta. i grandi della terra se ne sono accorti da un pezzo ecco perchè fermano ogni azione innovatrice che viene da quei paesi, il Argentina negli anni 90, il cile negli anni '70, in Guatemala, come in moti stati africani dove i governanti vessano ancora il popolo per spartirsi la ricchezza che arriva dall'occidente e per non far proliferare le migliaia di risorse.

Paola ha detto...

in questo modo "la rivoluzione" può iniziare. grazie

LOTTA CONTINUA ha detto...

mentre leggevo capivo com'è è straordinario il potere della comunicazione. emozionante leggere alcune cose che non ti aspetti ma quando le scopri vedi un mondo altro e ti chiedi: ma allora è possibile?

Anonimo ha detto...

complimenti all'articolista, a chi l'ha ripubblicato, quello che è scritto parte sempre da basso, lì sa lanovità.

Tiziana C. ha detto...

come per dire viva la diversità....

Anonimo ha detto...

l'aRGENTINA è FantaSITCA

Anonimo ha detto...

"ni hombres ni mujeres", per gli omo questo è linfa, è vita vera, passione per non doversi nascondere, è iniziazione, trascendenza, è oltre l'altro, oltre il tutto. noi tutti dovremmo avere di più il coraggio di esibire, di coinvolgere, di scoprire si agire, mi dico questo perché anche io non mi firmo.