Avevo circa 11 anni quando ho
incominciato a lavorare come ragazzo in una macelleria alla via Vergini. E'
incredibile come adesso percepisco il cambiamento. Causa la povertà della mia
famiglia ho interrotto gli studi quasi bambino, così come tutti i mie fratelli
e parenti vicini. E' incedibile il tempo passato fuori di casa a lavorare, nel
periodo di Natala dalle sei del mattino fino alle undici di sera; una giornata
intera per la strada; la macelleria affollata di gente, la pioggia, il freddo
della cella figo. Poi ho imparato a "sfasciare" la carne, prima con
un pezzo facile, il gambetto, poi con quella che noi chiamiamo "lociena",
il davanti dell'arrosto. Difficile togliere senza staccare la polpa dall’osso,
difficile soprattutto in inverno quando nel laboratorio del negozio il gelo
raggiungeva le mie mani. Mi diceva il capo: "mettile sotto l'acqua fredda,
vedrai che si riscaldano". E così per circa 30 anni della mia vita ho
lavorato senza sosta, alla fine ho comprato una panda e mi sono sposato.
Una sera, era circa mezzanotte,
visto che le macellerie dove lavoravo erano due, dello stesso proprietario,
distanti 100metri l'una dall'altra, mentre mi recavo all'altro negozio mi vide
il parroco del quartiere: "Guaglio' ma tu stajo ancora faticanno?".
Voleva a tutti i costi dire al "masto" che la sua non era umanità,
che un ragazzo appena adolescente non poteva fare quella vita. Gli scongiurai
di andarsene che non potevo perdere quel posto di lavoro. Ho lavorato senza
sosta e quando guadagnavo 500mila lire alla settimana (ero già grande ed
esperto tagliatore), ero felice. Mi ricordo che odoravo (puzzavo) sempre di carne
fresca macellata, un odore che non si toglieva mai da dosso anche quando mi
lavavo e mi profumavo. Quella esalazione mi perseguitava, avevo paura che
qualche ragazza mi chiedesse cos’era.
Un episodio che non dimenticherò
mai. All’inizio, quando ero ancora un pivello lavoratore, la cosa che più mi
urtava erano le “cazziate” che beccavo dal capo. Quella concezione
paternalistica l’ho sempre schifata, l’odiavo quel rompi coglioni ignorante. Mentre
pulivo a terra, si era fatto quasi l’ora di tornare a casa, sfinito e senza
forze, il capo cazzone usci dal cesso e mentre si allacciava la cinta del
pantalone mi disse se potevo andare a “spilare ‘o cesso”, insomma quel vecchio
logorroico aveva un servo per lavoratore e nella sua pervertita coscienze
tirare la catena equivaleva ad un gesto umiliante. Volevo sputargli in faccia
ma “senza soldi nun s'e cantano messe”.
Adesso dopo trent’anni sono
felice. Da qualche mese ho cambiato lavoro, ho ritrovato il sapore della
libertà. Guadagno molto di meno e con due figli è un problema, ma non mi
interessa. Mi sono iscritto ad una scuola serale, voglio prendere un diploma. Questa
scelta non la saprei spigare bene, ma accompagnare i miei figli a scuola è una
bellissima sensazione, prima non potevo, era impossibile; adesso quando torno da
lavoro posso giocare con loro, scrutarli meglio negli occhi, assaporare la loro
felicità, e vederli saltellare con gioia quando a casa porto un piccolo “regaletto”.
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1 commenti:
storie di tanta povera gente
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