Non mi piace estrapolare una
parte di un articolo e commentarne il contenuto, ma questo segmento mi ha fortemente
incollato al giornale. Mi surriscaldavo ogni qualvolta superavo una riga, per
poi riprenderne un’altra. Non sapevo se stavo leggendo qualcosa di vero, qualcosa di falso, oppure una
scenografia cinematografica. A me che sono nato e vivo nel rione da sempre scritti del genere
fanno sbellicare dal ridere. Non capisco perché i giornalisti devono recarsi
sul posto quando una montagna di [s]letteratura è a loro disposizione. Decine
di “scrittori” hanno già scritto cose del genere, basta cercare su internet o
su altri quotidiani napoletani e nazionali. L’effetto dispregiativo ormai non
mi va più di commentarlo, quello che mi dispiace raccontare è come dallo stile
descrittivo si è passati a quello sensazionalistico. Per fortuna che non sono
io il primo a dirlo, capisco che scrivere è una professione piuttosto
difficile, per lo più antiquata, ma spesso la disinformazione ha dalla sua
parte l’etichetta, uno stampino fatto apposta per essere usato al momento giusto.
Premesso che l’effetto di
incollarti al giornale sia la formula giusta, così come il titolo e il
sottotitolo, l’altra cosa che maggiormente mi dispiace è veder raccontare un
luogo senza mai realmente criticarlo. Nello scritto di cui sopra non c’è una
critica, non ci sono parole per cui un cittadino della sanità può trarne
insegnamento, per cui si possa dire ad un bambino o ad un adolescente: “leggi
che ti acculturi”. Quello che c’è scritto nell’articolo, e in quelle poche
righe che ho riportato, è per lo più la spoliazione di un’anima o delle anime
di Napoli, e in questo caso, del quartiere Sanità. E la valutazione di un
effetto prevaricatore, il contrario di quello che dicevano De Sica ed Eduardo,
pur citati dallo stesso Treccagnoli. Quello che c’è scritto nella pubblicazione
è la valutazione di una politica che mette tutti contro tutti, il buono e bravo
acculturato scrittore che rimprovera i suoi figli distratti; l’eroe che,
lungimirante, cerca uno spiraglio nella sua paternalistica funzione, quello che
insegue la verità nei suoi giudizi di valore.
“Non è sicuramente questa la
letteratura che voglio insegnare a mia figlia”, mi ha detto un commerciante
dopo aver letto l’articolo de “Il Matttino”. Nelle scene dei registi
neorealistici il personaggio povero, sporco, ladro e balordo ha un suo spirito
così come una sua “identità”; alla via Cinesi Mastroianni e la Loren hanno
raccontato prima di tutto la gente, l’umiltà, la capacità di organizzarsi nella
povertà e nel bisogno. Eppure in quegli anni la criminalità esisteva pari ad
oggi, forse superiore e più cattiva, per certi aspetti. Raccontare come in un
film dell’horror - prima della trama c’è l’emozione, la suspense, lo
stordimento - è una condizione essenziale della stampa attuale. Scrivere senza
cognizione di causa è una prerogativa che fa mala alle generazioni future; la
letteratura da tavolo è superata così come l’eroe/politico che abbraccia la sua
croce per il bene altrui.
Se raccontare
un rione, e i suoi 60 mila abitanti, vuol dire raccontare la trama di un film
va più che bene; ma un film è pur sempre una finzione mentre la realtà è
qualcosa di altro, qualcosa di normale, qualcosa che, quando la racconti, non
ha uditori né pubblico. Ci saranno pure dei fetenti nel rione? Ma certo! ‘O
marjuolo è marjuolo a Napoli, a Milano, a New York, a Calcutta e nel Burundi’,
parafrasando un celebre difensore della povertà. La realtà è sfuggita di mano perché è
semplice e la semplicità nessuno più ormai la sa
descrivere. [+blogger].